Quando sei a Roma, fai come i romani? Il Tribunale di Roma interpreta erroneamente sentenza CGUE in YouTube e riduce criteri per responsabilità diretta di gestori di piattaforme a “checklist”

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Nella Grecia e Roma antiche, le sibille erano sacerdotesse degli dèi che fungevano da intermediarie coi mortali per anticipare eventi futuri. Le loro profezie, tuttavia, venivano pronunciate in modi oscuri. Da qui l’aggettivo “sibillino”, riferito a messaggi non immediatamente intelligibili o che rimangono criptici tout court.

Arrivando ai giorni nostri ed al mondo del diritto d’autore, sembrerebbe che a Roma le antiche sibille siano state bizzarramente sostituite dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (“CGUE”), le cui sentenze – più che profezie – sembrano essere difficili da comprendere appieno per i giudici nazionali e, quindi, da applicare correttamente.

Il fatto, però, è che – a differenza dei famosi messaggi della Sibilla cumana – le sentenze della CGUE non sono profezie di eventi futuri e dovrebbero anche essere molto più accessibili. In quanto tali, non dovrebbero creare le difficoltà e le resistenze che, invece, hanno sperimentato avanti molteplici giudici nazionali.

Le recenti e un po’ “gemelle” decisioni del Tribunale di Roma nelle cause RTI c. Vimeo (sentenza 5700/2023) e RTI c. V Kontakte (sentenza 14531/2023) sono esempi di un fraintendimento e di un’erronea applicazione della giurisprudenza della CGUE, in particolare della sentenza 2021 nelle cause riunite YouTube, C-682/18 e Cyando, C-683/18.

  1. La strada verso YouTube

Per comprendere YouTube, è necessario inquadrare tale decisione nel suo più ampio contesto, in particolare avuto riguardo alla precedente sentenza della CGUE nella causa Ziggo, C-610/15, relativa alla famigerata piattaforma Pirate Bay. In quel rinvio pregiudiziale, la CGUE statuì per la prima volta che il gestore di una piattaforma può essere responsabile – su base diretta – per atti di comunicazione/messa a disposizione del pubblico ai sensi dell’art. 3 della direttiva InfoSoc (2001/29), per aver facilitato l’accesso a contenuti illeciti.

Successivamente a tale pronuncia, si discusse se la decisione di ritenere gli operatori di piattaforme Internet, a determinate condizioni, responsabili in via diretta per l’effettuazione di attività riservate a titolari di diritti d’autore potesse essere “estesa” a scenari ulteriori e meno eclatanti rispetto a quelli di evidente pirateria.

Nonostante le contrarie Conclusioni dell’Avvocato generale (AG) Saugmandsgaard Øe, la Grande Camera della CGUE ha risposto di “sì” nella propria sentenza in YouTube, concentrandosi – come parametro determinante – sulla circostanza se il ruolo del gestore della piattaforma possa essere considerato imprescindibile ed intenzionale.

A tal fine, è necessario considerare se il gestore della piattaforma in questione:

  • Si astiene dall’implementare le opportune misure tecniche che ci si può aspettare da un operatore normalmente diligente nelle specifiche circostanze di specie per contrastare in modo credibile ed efficace le violazioni del diritto d’autore sulla propria piattaforma;
  • Partecipa alla selezione di contenuti protetti comunicati illegalmente al pubblico;
  • Fornisce strumenti specificamente destinati alla condivisione illecita di contenuti protetti o promuove consapevolmente tale condivisione, il che può essere attestato dal fatto che l’operatore ha adottato un modello di business che incoraggia gli utenti della propria piattaforma a comunicare illecitamente al pubblico contenuti protetti attraverso tale piattaforma.

La mera circostanza che il gestore di una piattaforma sia astrattamente a conoscenza del fatto che i contenuti illeciti possono essere condivisi dai propri utenti è insufficiente, così come la circostanza che operi a scopo di lucro. Tuttavia, in entrambi i casi, la valutazione conduce ad un risultato diverso se il titolare del diritto ha inviato una notifica (“notice”) specifica ed il gestore della piattaforma si è astenuto dall’agire tempestivamente per rimuovere o disabilitare l’accesso a tale contenuto.

In sintesi, YouTube chiarisce due aspetti fondamentali:

  • Il primo è che la possibilità di ritenere il gestore di una piattaforma direttamente responsabile per atti di comunicazione al pubblico in relazione ai contenuti caricati dai propri utenti non è limitata a scenari eclatanti (in questo senso, c’è continuità materiale tra la giurisprudenza della CGUE sull’art. 3 della direttiva InfoSoc e l’art. 17 della direttiva DSM (2019/790) (adottata due anni prima, nel 2019, sebbene quest’ultima non sia una “codificazione” della prima);
  • La seconda è che, per stabilire la suddetta responsabilità, è necessario effettuare una valutazione multifattoriale. È importante sottolineare che tale valutazione non deve essere intesa come una “checklist” formale, ma piuttosto come un esercizio di bilanciamento.
  1. Le sentenze del Tribunale di Roma

Senza commentare l’esito dei contenziosi (le piattaforme in questione – Vimeo e VK – sono state ritenute non responsabili), le sentenze del Tribunale di Roma sono problematiche perché fraintendono la sentenza YouTube della CGUE. Questo per i seguenti motivi.

2.1 Fraintendimento di YouTube

In primo luogo, il Tribunale di Roma ha ravvisato un’incompatibilità tra la sentenza della CGUE nella causa YouTube e la precedente giurisprudenza del Tribunale e della Corte d’Appello di Roma (nonché della Corte di Cassazione, in particolare le sentenze 7708/2019 e 7709/2019), che aveva invece ‘anticipato’ YouTube concludendo nel senso di una responsabilità diretta di alcune piattaforme anche al di fuori di scenari eclatanti à la Pirate Bay.

Il Tribunale di Roma ha interpretato in modo erroneo la CGUE, sostenendo che, in quella sede, la Grande Camera avrebbe indicato che attività quali il filtraggio, la selezione, l’indicizzazione, l’organizzazione, la classificazione, l’aggregazione, la valutazione, l’uso, la modifica, l’estrazione o la promozione di contenuti caricati dagli utenti non potrebbero far scattare la responsabilità – tutto ciò in contrasto con le precedenti decisioni italiane.

Questo non è corretto. La CGUE ha qualificato tutte queste attività (i) distinguendo tra contenuti leciti e illeciti (non qualsiasi contenuto) e infine (ii) approvando solo quelle volte a contrastare in modo credibile ed efficace la presenza di quest’ultimo tipo di contenuti sulla piattaforma in questione.

Inoltre, YouTube riguardava la responsabilità diretta di un gestore di piattaforma e non, come sembra ritenere il Tribunale di Roma, una situazione in cui un gestore di piattaforma potrebbe diventare responsabile in via secondaria a causa dell’inapplicabilità dell’hosting safe harbour.

In sintesi: il Tribunale di Roma ha interpretato in modo erroneo la sentenza in YouTube e la rilevanza della stessa quando ha concluso che tale decisione avrebbe «profondamente modificato l’orientamento in materia di hosting provider [precedentemente]espresso dal Tribunale di Roma […], che era stato confermato dalla Corte d’Appello di Roma e dalla Corte di Cassazione».

2.2 Riduzione dei criteri di valutazione di YouTube a “checklist” formale

In secondo luogo, il Tribunale di Roma ha indebitamente ridotto i criteri enunciati in YouTube ad una “checklist” formale, applicandoli addirittura in modo incompleto.

Dalla lettura delle sentenze, la responsabilità diretta dei gestori delle piattaforme in questione è stata esclusa considerando che essi avevano:

  1. Proibito nelle proprie condizioni d’uso di violare diritto d’autore e altri diritti di terzi;
  2. Provveduto ad indicizzare i relativi contenuti automaticamente, anziché manualmente;
  3. Richiesto agli utenti di creare un account;
  4. Previsto e messo a disposizione la funzionalità di notice-and-takedown; e
  5. La maggior parte degli introiti derivano dagli abbonamenti degli utenti piuttosto che dalla pubblicità.

Questo, come detto, non è ciò che YouTube richiede.

Ciò che è richiesto, invece, è una ponderata considerazione di tutte le circostanze del caso, compresa la valutazione degli sforzi compiuti dal gestore della piattaforma per contrastare in modo credibile ed efficace la diffusione di contenuti illeciti, la quantità di contenuti illeciti effettivamente presenti sulla piattaforma rispetto a quelli leciti e il modello di business complessivo della piattaforma stessa.

2.3 Responsabilità diretta e accessoria/indiretta

In terzo luogo, il Tribunale di Roma non ha correttamente separato le questioni della responsabilità diretta da quella accessoria/indiretta, con l’hosting safe harbour ai sensi dell’equivalente italiano dell’art. 14 della direttiva Ecommerce 2000/31 (ora art. 6 DSA (Regolamento UE 2022/2065) rilevante solo per quest’ultima.

È opportuno ricordare che nella giurisprudenza italiana la divisione tra responsabilità diretta e accessoria/indiretta in relazione agli intermediari online non è sempre stata scevra di ambiguità. Peraltro, tale ambiguità non è solamente riscontrabile in Italia.

Inoltre, le cose sono state rese più complicata dalla portata oggettivamente ampia della giurisprudenza della CGUE e dalla conseguente costruzione del diritto di comunicazione/messa a disposizione del pubblico, nonché dalle persistenti incertezze relative ai destinatari ed ambito di applicazione dei safe harbours. In tal senso, vale la pena ricordare che, nelle proprie Conclusioni in YouTube, l’AG Saugmandsgaard Øe ha affermato che l’hosting safe harbour si applicherebbe «in modo orizzontale, a ogni forma di responsabilità». Tale posizione, tuttavia, non è corretta se interpretata nel senso che siano ricomprese anche azioni proprie del provider.

Tutto ciò è chiaro se si considera sia la formulazione della direttiva Ecommerce sia la giurisprudenza della CGUE già a partire da pronunce come Google France e Google, cause riunite da C-236/08 a C-238/08. In YouTube, la Grande Camera ha chiarito una volta per tutte che i safe harbours si applicano solamente ai fornitori di servizi di intermediazione. Insomma: i safe harbours non si applicano a prescindere dal tipo di responsabilità in questione.

Se un giudice nazionale ritenesse il gestore di una piattaforma responsabile in via diretta della violazione del diritto d’autore, lo stesso sarebbero automaticamente escluso dall’ambito di applicazione dell’hosting safe harbour. Detto ciò, la situazione di una piattaforma che adotta proattivamente misure atte ad evitare che gli utenti del proprio servizio commettano attività illecite non dovrebbe essere tale da escludere automaticamente l’applicazione dell’immunità.

Tale conclusione è ora cristallizzata a livello di legislazione: è sufficiente esaminare l’art.17 della direttiva DSM e l’art. 7 del DSA. Tali disposizioni chiariscono che il safe harbour non si applica a gestori di piattaforme soggetti a responsabilità diretta (art. 17 della direttiva DSM) e che, nel caso in cui un intermediario si qualifichi per il safe harbour, l’adozione di misure volte ad evitare violazioni da parte degli utenti non dovrebbe essere un fattore penalizzante per il godimento dello stesso (art. 7 DSA).

Tuttavia, le sentenze romane confondono questioni di responsabilità diretta e accessoria/indiretta e considerano indebitamente che, se la piattaforma non è responsabile in via diretta, allora non lo è nemmeno in via accessoria/indiretta grazie all’applicabilità dell’hosting safe harbour. Questa non è affatto una progressione automatica.

  1. Contenuto delle notices e obblighi di monitoraggio

Un altro aspetto di rilievo delle sentenze è che il Tribunale di Roma pare “discostarsi” dalla sua stessa giurisprudenza, per quanto riguarda il contenuto delle notices. In passato, i giudici romani avevano indicato che una notice non deve necessariamente indicare l’URL [uniform resource locator]relativo al contenuto presumibilmente illecito. Con le sentenze più recenti, il Tribunale di Roma si allinea alla prassi di altri tribunali italiani (ad esempio, Milano e Torino), che hanno imposto l’obbligo di indicare l’URL.

Questo, di per sé, non è scorretto, date le circostanze specifiche. Detto ciò, non è appropriato pensare che vi sia un dovere di indicare l’URL sempre ed in ogni caso. A tale proposito, è opportuno ricordare che:

  • Nel 2019, la Corte di Cassazione ha concluso che una notice deve indicare l’URL solo quando ciò è indispensabile per identificare il contenuto illecito;
  • La legge non richiede necessariamente l’indicazione dell’URL relativo al presunto contenuto illecito affinché una notice possa considerarsi validamente inviata. In questo senso, il Tribunale di Roma ha sbagliato ancora una volta quando ha ritenuto che la Grande Camera in YouTube abbia chiaramente imposto l’indicazione dell’URL relativo al presunto contenuto illecito.

Mentre la direttiva Ecommerce non specificava il contenuto delle notices, l’art. 16 DSA fornisce ora un approccio armonizzato ai meccanismi di notice-and-action per i fornitori di servizi di hosting, richiedendo che le notice siano «sufficientemente precise e adeguatamente motivate». Tale formulazione codifica la giurisprudenza consolidata della CGUE, in particolare L’Oréal, C-324/09, e prevede l’obbligo di indicare chiaramente l’esatta ubicazione elettronica del presunto contenuto illecito, quali uno o più URL esatti.

Infine, il Tribunale di Roma ha ritenuto onnicomprensivo il divieto di obblighi generali di sorveglianza ai sensi dell’art. 15 della direttiva Ecommerce (ora art. 8 DSA), senza considerare la distinzione tra obblighi generali (non ammessi) e specifici (ammessi). In YouTube, la CGUE ha valutato positivamente l’uso delle misure tecniche che un operatore economico diligente potrebbe adottare per contrastare in modo credibile ed efficace le violazioni del diritto d’autore sulla propria piattaforma. Tali tecnologie comportano, inevitabilmente, attività di sorveglianza.

  1. Conclusioni

Il motivo per cui le profezie della Sibilla cumana erano così difficili da decifrare è che, ispirata dagli dèi, era solita trascriverle in esametri su foglie di palma, che poi venivano mescolate dai venti che entravano nella grotta presso cui si trovava.

Fortunatamente, non è così che vengono redatte le sentenze a Lussemburgo. Pertanto, la difficoltà dei giudici nazionali nell’applicarle appare difficile da giustificare. Si spera che, nel futuro, si possa essere più rispettosi delle indicazioni della CGUE.

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