Tra il susseguirsi di «grazie» sui libri delle condoglianze molte le firme delle mamme dei bambini guariti e degli altri ex pazienti. Ma tra i messaggi di gratitudine c’erano anche quelli dei famigliari di chi non ce l’ha fatta. Ai funerali del professor Franco Mandelli,lunedì mattina nella chiesa gremita dedicata a San Roberto Bellarmino in via Panama, gli occhi arrossati erano centinaia, molti sui volti dei volontari di Ail, l’Associazione italiana contro le leucemie, i linfomi e il mieloma.
«Per Mandelli non c’era una malattia da sconfiggere, ma c’era un malato, una persona di cui prendersi cura»: queste le parole di don Nicola Filippi dedicate alla semplicità e all’umanità del grande ematologo che ha dedicato la vita alla lotta contro il cancro, debellando la parola «incurabile» dalla malattia e offrendo attenzione al dolore e all’assistenza domiciliare con l’inserimento di psicologi e professionisti. Le «terapie Mandelli» sono inserite tra i migliori protocolli internazionali. «Per lui era il paziente al centro, non la malattia — ha evidenziato Sergio Amadori, presidente dell’Ail —. Quello che ci ha insegnato dobbiamo portarlo avanti».
Originario di Bergamo, Mandelli è morto domenica all’età di 87 anni. Dal ’57 ha contribuito alla crescita dell’istituto di Ematologia dell’Umberto I e dal ‘69 ha dato impulso all’Ail, che oggi vanta migliaia di volontari in tutta Italia. La sua vita era talmente dedicata alla ricerca e alla clinica che spesso dormiva in istituto, nella palazzina B di via Bergamo. «Diventava “il mio prof” per chiunque, dagli infermieri ai medici che lo affiancavano — ha ricordato Marco Vignetti della Fondazione Gimema per la ricerca clinica, di cui Mandelli era presidente. — Quando si parlava con lui ci si sentiva coinvolti, sapeva trasmettere forte entusiasmo». La nipote Bianca ha ricordato il nonno «sempre presente anche con una telefonata» e dietro all’omaggio floreale del Circolo Aniene in chiesa era seduto il presidente del Coni Giovanni Malagò.