«Dimenticatemi», aveva chiesto Laura Antonelli cinque anni fa. E aveva quasi funzionato.
L’ha trovata morta Mlara, la sua badante, un lunedì mattina, nell’appartamento da due camere di Ladispoli, una piccola città né bella né brutta sul litorale romano.
L’Italia però non aveva dimenticato Laura Antonelli, 44 film racchiusi in una sola immagine, la cameriera in reggicalze sulla scala in Malizia, e 73 anni di vita condensati in una formula comoda e facile da far stare in un titolo: «L’icona sexy e disperata».
Dove «disperata» è a sua volta sintesi di: «vecchiaia, miseria, guai giudiziari, oblio».
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A lei però non importava più: Laura Antonelli era stata dimenticata dal mondo, ma era tutto reciproco, anche lei aveva dimenticato il mondo. Prima di morire, aveva lasciato poche e precise coordinate della sua vita di donna che una volta era stata un’attrice famosa: una Bibbia sul tavolo e le persone da chiamare. Il vecchio amico Lino Banfi, la nuova amica Claudia Koll, suo fratello Claudio e il parroco don Alberto. Una geografia semplice, una linea a dividere il prima dall’oggi. La si intravede anche nei commenti sui giornali. Jean-Paul Belmondo: «Uno charme eccezionale». Giancarlo Giannini: «Ero imbarazzato da quanto fosse bella». Lando Buzzanca: «Una femminissima». Ma per chi c’è stato dopo, negli anni del silenzio, la storia di Laura Antonelli è tutta diversa.
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La storia di Laura Antonelli non è quella del lento declino di un’attrice bella, ma quella di una crepa che si spalanca nella vita, e che divora tutto. A 46 anni l’ultimo film di un certo successo (Roba da ricchi), a 50 l’ultimo tentativo di tornare a essere la Antonelli degli anni d’oro con Malizia 2000, che con un eufemismo si può definire un film molto sfortunato.
È l’inizio degli anni ’90, succede di tutto. Laura si sottopone ai trattamenti estetici che le rovinano il viso. E viene arrestata per 36 grammi di cocaina trovati in casa sua, durante una festa, dai carabinieri. «Niente l’ha segnata come l’arresto e il processo, non capiva, continuava a dirmi: “Dovrei essere aiutata, non condannata” », racconta Lorenzo Contrada, il suo penalista, che la difese in appello e la fece assolvere.
«Aveva una condanna superiore ai tre anni, rischiava di andare in prigione, la notte in attesa della sentenza forse fu la peggiore della sua vita». Invece viene prosciolta: è il 2000, lo stesso anno in cui entra nella chiesa di Santa Maria del Rosario a Ladispoli, vestita come una francescana. «Parlava di due cose: di quanto avesse amato Jean-Paul Belmondo e di quanto cercasse Gesù». Il 1991 è l’anno in cui gira Malizia 2000, l’anno in cui la crepa si spalanca. Barbara Scoppa non l’aveva mai conosciuta prima di incontrarla sul set, da sua «erede designata»: «Avevamo fisicità simili, mi avevano scelta per essere quello che Laura era stata nel 1973, mentre lei provava a rilanciarsi».
Non andò esattamente così: «Aveva 50 anni, era fragile e alla ricerca di una verità, mi trovai a essere la sua sorella maggiore, io che ero più giovane di quasi vent’anni». Parlava ancora di Belmondo, che aveva conosciuto sul set di Gli sposi dell’anno secondo.
Lo aveva amato per nove anni, da dieci si erano lasciati, ma lei faceva fatica a dimenticare. Eppure già conteneva la Laura Antonelli che sarebbe diventata: «Girava sempre con il crocifisso in mano, lo toccava mentre mi parlava, lo lasciava solo per le sue scene». Malizia 2000 è un disastro al botteghino e sui giornali, e non è l’unico. Il suo viso comincia a rovinarsi, lei dà la colpa alle iniezioni di collagene che avrebbero dovuto riportarla al 1973 e che invece sprecano il fascino conquistato con gli anni: «Assurdo, perché era una cinquantenne in forma e bella. Ma non riusciva più a giocare con il ruolo di donna sexy, voleva esserlo a tutti i costi e aveva smesso di essere vigile e ironica sul suo ruolo, che invece sono le cose che ti salvano».
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«“Gianpò Belmondò, disgrazieto, ti spezzo il capocollo”, le dicevo, per farla ridere. Perché era il mio compito farla ridere, anche delle sue fragilità». Lino Banfi nella vita di Laura Antonelli è il ponte tra il prima e il dopo. L’aveva conosciuta al picco della fama e della bellezza, sul set di Peccato veniale, nel 1973, e non l’ha mollata quando tutto era passato, fino a scrivere la famosa lettera al Corriere della Sera in cui faceva appello a Berlusconi e Sandro Bondi (allora ministro delle Attività culturali) perché la salvassero. «Lei per quella lettera era tanto grata quanto arrabbiata, mi chiamò per incaricarmi ufficialmente di dire al mondo che non aveva bisogno di niente», ricorda Contrada, l’avvocato: «Laura non aveva semplicemente nessun interesse per le cose materiali». Banfi però fu ostinato nel volerla aiutare. «L’ho cercata di prepotenza, non voleva incontrarmi. Ci siamo visti e siamo scoppiati a piangere. C’era una parola che la faceva emozionare: famiglia. Ogni volta che le dicevo di aver festeggiato un anniversario di matrimonio, le brillavano gli occhi. In quegli occhi, anche quando era felice e corteggiata, si vedeva la solitudine che sarebbe arrivata».
Ladispoli è un buon posto dove sparire, se decidi di sparire.
Il servizio completo sul numero 26 di Vanity Fair in edicola da mercoledì 1 luglio 2015.