Ci sono persone che, quando se vanno dal pianeta, in punta di piedi, lasciano un bel fardello con il loro lavoro a chi rimane: di riuscire a continuare con quell’energia contagiosa, fresca, inesauribile che fa sembrare facili cose anche parecchio complicate. Le musiche di tradizione «folk» sono uno di quei fardelli quando si associano a una persona come Caterina Bueno, scomparsa esattamente dieci anni fa, a Firenze: perché sul termine s’incrostano ormai un bel mazzo di significati diversi, e quello che un tempo era riservato solo a chi imbracciava uno strumento o faceva pratica di vocalità solo per averlo imparato a orecchio direttamente, oggi vuol dire un mucchio di cose. Ad esempio che siamo almeno alla terza generazione che pratica forme di folk revival più o meno filologico e che, peraltro, anche le prime interpretazioni di note folk diventate reperto sonoro fonofissato, su cassette e su dischi in vinile hanno funzionato da «canone».
Caterina Bueno è stata il gran cuore della riscoperta folk in terra di Toscana, e con un raggio di azione allargato a comprendere anche altre porzioni di terre limitrofe nel cuore d’Italia. Era una toscana che più toscana non si può, nello spirito, nella veemenza, nel gusto della battuta asprigna e radente, ma il cognome che portava profumava di altre latitudini. Bueno era il cognome del padre Xavier, pittore. Sua madre era una scrittrice svizzera di talento, Julia Chamorel. Dunque un coté da buona borghesia, ancorché artistica e poco convenzionale, e una casa a San Domenico di Fiesole, dove Caterina nacque, piena di tele e di libri.
A Caterina, giovanissima, piace da subito il gusto della musica, della battuta, dell’«ottava rima» della gente di Toscana: tant’è che, raccontano le cronache, la domenica andava a sentire cantare il marito della domestica che avevano in casa a «fare le faccende» e poi, ragazzina, registratore a tracolla, la prima «registrazione sul campo», come fanno gli etnografi: al mercato di Prato per registrare i versi liberi del poeta popolare e venditore ambulante Mario Andreini, uno che era capace di cavare dalla sua memoria prodigiosa versi taglienti in improvvisazione in «ottava rima».
Un’abilità che gli aveva procurato anche qualche guaio, quando sotto il rasoio dei suoi versi era finito il «Mascellone» Benito Mussolini. Ecco cosa interessa Caterina Bueno, e da subito: quei cantori del popolo che, per versi o per canzoni misurano la temperatura del reale, incameravano notizie e storie lasciandole in eredità a una prossima generazione che, a sua volta, ne trarrà ispirazione o interverrà direttamente su quanto lasciato. Un concetto di «tradizione» molto mobile, come in realtà è sempre, ci raccontano gli antropologi. Lei da parte sua ha imparato presto a suonare la chitarra, ha scoperto di avere una voce docile e potente a suo servizio, deliziosamente arrochita e il passo successivo è un contatto diretto con l’Istituto Ernesto De Martino. Lì si gettano i semi di un’attività frenetica, palpitante, a caccia dei mille rivoli di un gran fiume di note popolari, un’attività che andrà a distendersi su oltre quattro decenni, e sempre con colpi ben piazzati. Comincia subito a partecipare all’attività del Gruppo Nuova Resistenza, a Firenze, entra nel Nuovo Canzoniere Italiano, ed è la «voce che mancava», accanto a Fausto Amodei, Roberto Leidi, Michele Straniero, Franco Fortini, Sandra Mantovani, Ivan Della Mea, insomma tutto quel reticolo di intellettuali che, in anni ancora lontani dalla fiammata diretta dell’impegno (nascita: 1962) stanno ribaltando la concezione museale e polverosa del patrimonio folk italiano.
L’occasione più diretta e significativa, restata nella memoria della storia sociale di questo Paese, oltre che in quella culturale, è con Bella Ciao, regia di Filippo Crivelli spettacolo messo in scena al Festiva dei Due Mondi di Spoleto nel 1964. Volano canzoni dure e dirette, che raccontano a tutti di un popolo che non è l’oleografia di se stesso, come la buona borghesia voleva far credere: quando parte Gorizia tu sia maledetta, contro l’inutile carnaio della prima guerra mondiale un ufficiale dei carabinieri denuncia il gruppo per vilipendio delle forze armate italiane. Caterina nell’occasione intona la dolente Tutti mi dicon Maremma Maremma, conosciuta poi come Maremma Amara, raccolta da «informatori» nelle montagne del pistoiese, e quel brano diventa una sorta di «canone» del folk italiano, ripreso da Gabriella Ferri, dai Gufi, da Nada , addirittura dalla signora del fado Amalia Rodriguez.
Il ’64 è anche l’anno del suo primo disco, La Brunettina/canzoni, rispetti e stornelli toscani. Partenza col botto: Caterina non si ferma più. Nel ’66 è in Canada con uno spettacolo diretto da Aldo Trionfo, mentre nella Penisola, accanto, tra gli altri, a Giovanna Marini, Rosa Balistreri e Giovanna Daffini, è parte dello spettacolo Ci ragiono e ci canto: la regia è di Dario Fo. Il suo primo vero ellepì, La Veglia, contiene quell’epitome di dolcezza e poesia popolare toscana che è Cinquecento catenelle d’oro: un brano che verrà citato da De Gregori nella canzone che le dedica, Caterina, su Titanic, 1982, perché lui, non ancora il Principe delle note d’autore, ma già attento conoscitore del folk, nel ’71 è con Caterina sui palchi, assieme a Antonio De Rose: si ritroveranno nel 1995, quando il Folkstudio di Roma organizza una raccolta di fondi per scongiurare la chiusura, e Caterina rispende all’appello assieme al Principe, a Giovanna Marini, Mimmo Locasciulli, Claudio Lolli, Paolo Pietrangeli. Comincia a essere anche un volto televisivo importante, Caterina: ma quando nel ’77 si schiera in diretta con gli attivisti antinucleari che pacificamente si oppongono alla costruzione della centrale di Montalto di Castro scatta un ostracismo rabbioso in Rai, che durerà decenni. Accresciuto, anche, dalla presenza come ospite fissa ai meeting anticlericali di Fano, da buona toscanaccia libertaria.
Sono gli anni in cui Caterina Bueno ha attorno giovanissimi talenti del nuovo folk italiano che diventeranno poi i protagonisti raffinati di una generazione successiva: ad esempio l’organettista Riccardo Tesi, Alberto Balia e Enrico Frongia, Mimmo Epifani, Maurizio Geri, Andrea Degl’Innocenti, tutti nomi preziosi. Anni di concerti fittissimi, di progetti, discografici, di riconoscimenti: nel 2005 il premio «Tradizioni e oltre», consegnato dall’etnomusicologo Maurizio Agamennone, nel 2006 il Comune di Firenze le conferisce il «Fiorino d’Oro», massima onorificenza cittadina ( in sala ci sono tra gli altri Sergio Staino e Gianna Nannini), lo stesso anno è il comune di San Marcello Pistoiese a conferirle la cittadinanza onoraria, e l’occasione è il magnifico festival Sentieri Acustici diretto dai uno dei sui «ragazzi», Riccardo Tesi.
Il suo ultimo concerto è a San Giuliano Terme, nel settembre 2006: se ne va all’improvviso il 16 luglio del 2007, proprio mentre sono pronti per la riedizione in cd i nastri storici «ripuliti» di Dal vivo/ Live Firenze 1975, assieme al Coro degli Etruschi.
Nel 2010 Riccardo Tesi e Maurizo Geri le hanno dedicato il doppio, struggente cd Sopra i tetti di Firenze – Omaggio a Caterina Bueno: in studio avevano convocato Piero Pelù, Gianna Nannini, Daniele Sepe, Carlo Monni, Nada, David Riondino. C’è anche Caterina di De Gregori, e le maglie delle Cinquecento catenelle d’oro si rinserrano per l’ultima volta.