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22/06/2017
'Politica vera, comunità intermedie, potere'
A Torino un convegno sull'insegnamento di Don Giussani: per un'originale presenza dei cattolici in politica

A Torino, presso la sede del Centro Culturale “Pier Giorgio Frassati”, organizzato dallo stesso in collaborazione con l’associazione “Esserci”, nell’ambito del ciclo “Anniversari”, si è tenuto un convegno, nel trentesimo, sul celebre discorso di don Luigi Giussani all’Assemblea regionale della Dc lombarda. L’incontro, titolato “Politica vera, comunità intermedie, potere”, ha avuto come relatori, introdotti dal professor Michele Rosboch, il direttore del Gr Rai Mario Prignano e il professor Stefano Costalli (Università di Firenze).
L’evento ha avuto il merito di tornare a sollecitare l’attenzione sulla prolusione del fondatore di Comunione e Liberazione all’assise politica. Nel 1987, quando il discorso fu pronunciato, sollevò un grande dibattito. Non furono pochi, nel partito d’ispirazione cristiana ma anche nella Curia milanese, i fastidi per la partecipazione del sacerdote brianzolo e per i concetti espressi, troppo lontani dalla visione politicista e piegata al dominio dell’organizzazione e della tecnicità politica egemonici nella Democrazia Cristiana.
Il discorso, come anche i relatori dell’appuntamento torinese hanno ben chiarito, anche proponendo illuminanti paralleli con il magistero di Papa Francesco, conserva una grande attualità. Pur nelle indubbiamente mutate contingenze.
Il primo dato che merita di essere considerato è il luogo in cui il discorso si tenne: un ambito totalmente partitico. Di un partito che era già in crisi di visione e vocazione, ma di cui Giussani non chiede certo lo scioglimento. La provocazione che il sacerdote rivolge ai quadri democratico-cristiani lombardi è, piuttosto, la riscoperta del senso di una simile modalità di presenza politica, richiamando a una responsabilità personale e non meramente organizzativa. Non a caso, egli parte dal dare una definizione alta: “La politica, in quanto forma più compiuta di cultura, non può che trattenere come preoccupazione fondamentale l’uomo”.  Si passa, quindi, a chiarire cosa si intende per uomo e cosa ne fonda la dignità: “la cosa più interessante è che l’uomo è uno nella realtà del suo io. (…) Che cosa determina, cioè dà forma a questa unità dell’uomo, dell’io? È quell’elemento dinamico che attraverso le domande, le esigenze fondamentali in cui si esprime, guida l’espressione personale e sociale dell’uomo. Brevemente, io chiamo «senso religioso» questo elemento dinamico che, attraverso le domande fondamentali, guida l’espressione personale e sociale dell’uomo; la forma dell’unità dell’uomo è il senso religioso”.
Andando in controtendenza rispetto a una certa retorica clericale in voga allora, ma anche in questi nostri tempi, Giussani non demonizza il potere. Divide, però, chiaramente il potere buono (da intendersi come servizio all’uomo e al senso religioso) e quello cattivo che mira solo a perpetuarsi (“Se il potere mira solo al suo scopo, esso deve cercare di governare i desideri dell’uomo (…) il potere diventerebbe prepotenza di fronte ad un’impotenza perseguita, appunto, con la riduzione sistematica dei desideri, delle esigenze e dei valori”). Quando il potere non serve l’uomo si serve dell’uomo e si concretizza la “grande omologazione” (termine che don Giussani, esplicitandolo, mutua da Pier Paolo Pasolini).
Il sacerdote parla di desiderio. Molti, nel partito e tra i commentatori, non compresero questa scelta lessicale. Rileggendolo oggi, invece, se si vuole essere realisti, si comprende assolutamente la pertinenza dell’opzione. Il don Giuss denunciò come “Nell’appiattimento del desiderio ha origine lo smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti; e nella astenia generale l’alternativa qual è? Un volontarismo senza respiro e senza orizzonte, senza genialità e senza spazio, e un moralismo d’appoggio allo Stato come ultima fonte di consistenza per il flusso umano”. Il potere autoriferito manipola l’umano attraverso un’ingegneria che si serve della legislazione, della comunicazione e dell’ideologia.
Altra parola centrale di quel discorso, parole di cui in questi ultimi anni si è assistito a un’ideologizzazione per assolutizzarla o demonizzarla, è responsabilità. Vale la pena riportare tutti il passo. “Una cultura della responsabilità deve mantenere vivo quel desiderio originale dell’uomo da cui scaturiscono desideri e valori: il rapporto con l’infinito, che rende la persona soggetto vero e attivo della storia. Una cultura della responsabilità non può non partire dal senso religioso. Tale partenza porta gli uomini a mettersi insieme. È impossibile che la partenza dal senso religioso non spinga gli uomini a mettersi insieme. E non nella provvisorietà di un tornaconto, ma sostanzialmente; a mettersi insieme nella società secondo una interezza e una libertà sorprendenti (la Chiesa ne è il caso più esemplare), così che l’insorgere di movimenti è segno di vivezza, di responsabilità e di cultura, che rendono dinamico tutto l’assetto sociale”. La responsabilità, lo si coglie a una lettura sincera, non è contrapponibile all’identità (ma vale anche il viceversa). La responsabilità non può e non deve soffocare il libero esprimersi della società, ma difenderlo e favorirlo. Tornando alle parole giussaniane: “È nel primato della società di fronte allo Stato che si salva la cultura della responsabilità. Primato della società, allora: come tessuto creato da rapporti dinamici tra movimenti, che creando opere e aggregazioni costituiscono comunità intermedie e quindi esprimono la libertà delle persone potenziata dalla forma associativa”.
A chi scrive pare che, oggi come allora, “la politica deve decidere se favorire la società esclusivamente come strumento, manipolazione di uno Stato e del suo potere, oppure favorire uno Stato che sia veramente laico, cioè al servizio della vita sociale secondo il concetto tomistico di «bene comune», ripreso vigorosamente dal grande e dimenticato Magistero di Leone XIII”. La sfida della sussidiarietà, ma prima ancora dell’educazione alla libertà, è centrale. Una vera emergenza.
Davvero “Politica vera è quella che difende una novità di vita nel presente, capace di modificare anche l’assetto del potere”.
Un discorso che merita di essere riletto e può aiutare a costruire un’originale presenza politica dei cattolici in politica di cui c’è davvero bisogno.

Marco Margrita
 




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