Nelle sfilate appena concluse a Milano per le collezioni della moda maschile dell’estate del prossimo anno ha fatto una sua apparizione insistita, anche se non invasiva, un’estetica maschile non ben definita che aleggia da qualche tempo in tutta Europa e che, come un fantasma estetico, evidentemente turba i sogni di molti fashion designer e direttori creativi. L’argomento è delicato, per cui si fa fatica a dare una definizione precisa dello stile che corrisponde alla tendenza, ma è innegabile che la migrazione di intere popolazioni che hanno un concetto del vestire diverso da quello occidentale/europeo stia influenzando il modo di vestire delle città che fintamente e malamente le accolgono, sempre con qualche occhiata di sospetto. Eppure, fortunatamente, nessun contatto culturale può lasciare le cose al punto in cui erano prima dell’incontro, né permettere l’indifferenza a chi, per mestiere o per passione, registra anche i cambiamenti più impercettibili che avvengono nel costume sociale.
Non si sa quanto coscientemente o quanto per paura di spingersi in territori ancora sconosciuti, gli stilisti che hanno abbozzato a loro modo il tentativo di analizzare la contaminazione in atto tra il vestire dell’Europa occidentale e quello di chi arriva soprattutto dall’Europa orientale si sono fermati prima di trasformare in banale tendenza un cambiamento che nasce spesso da eventi drammatici.

L’innominabile fenomeno è proprio quello che registra l’adozione dell’abbigliamento tipico della forza lavoro dell’Est europeo sdoganato da qualche stagione proprio dai fashion designer che hanno la stessa provenienza, come il georgiano Demna Gvasalia, fondatore del marchio Vetements e direttore creativo di Balenciaga, e del russo Gosha Rubchinskiy, osannati da critica e pubblico proprio per la loro capacità di operare una sintesi di due estetiche tenute separate per molto tempo. Ora, però, la differenza è che a registrare lo street-style che uomini e donne, appartenenti soprattutto alla generazione Millennial di Milano, Parigi, Londra e Berlino, hanno già adottato, siano i designer occidentali che rischiano di essere accusati di inseguire la luce dei fuochi d’artificio di una festa popolare che è già finita. Eppure, dell’indagine delle istanze che arrivano dalla strada la moda ne ha fatto un proprio dovere, come della capacità di prevenire la percezione diffusa dei sintomi del cambiamento ne ha fatto vanto e orgoglio.

Ricordo che in un’intervista concessami per il manifesto alla fine degli anni Ottanta, quando ancora le modelle di colore non apparivano sulle copertine dei giornali di moda, Karl Lagerfeld aveva preannunciato un cambiamento che è poi puntualmente arrivato non solo nella moda, dove il tema inter-etnico non è più un tabù, ma anche nell’industria cosmetica. Ecco perché alla moda appare strano che nel 2017 ci siano in Europa dei Parlamenti nazionali, come quello italiano, in cui si discute l’approvazione di una legge come quella dello Ius Soli, che appartiene più al diritto naturale che a quello civile. Dall’altra parte, però, già agli inizi del 2000, nel pieno dell’immigrazione balcanica, la moda ha registrato, banalizzando e peccando di scorrettezza politica, quello che ancora oggi viene definito «look Albania» (pronunciato Albènia, all’americana) che è una sorta di moda del cattivo gusto, un camp aggiornato alla bisogna. Ed ecco perché gioverebbe una maggiore riflessione prima di mandare in passerella eserciti di ciabatte di plastica rivestite di pelo.

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