In Iraq, nel 2003, il suo capo squadra amava ripetere, «il nostro lavoro è dare la caccia all’anima della gente». Ora, Brian Turner sa che essere un soldato significa che anche «altri faranno lo stesso con noi» e che i «nemici» sono solo persone, talvolta simili, che un conflitto ha diviso. Poeta e scrittore californiano, Turner ha servito per oltre sette anni nell’esercito degli Stati Uniti.
Il mestiere delle armi è però tutt’altro che un incidente nella biografia della sua famiglia, scandita dalle guerre. Quella di Corea per il padre, un Hells Angels che istruiva il figlio all’uso delle armi e giocava con lui a fabbricare del napalm in giardino. Il Vietnam per lo zio, la Seconda guerra mondiale nel Pacifico per il nonno, le trincee della Somme per il bisnonno.
La mia vita è un paese straniero (NN editore, pp 196, euro 18), esordio narrativo che mostra le tracce visibili del lavoro come poeta intrapreso da tempo da Turner, raccoglie perciò non solo le sue esperienze alla fonte, ma anche la memoria famigliare di eventi passati. Tutto cucito attraverso quella sorta di educazione sentimentale alla guerra di cui lui stesso è stato protagonista.
Un libro straordinario che alterna un linguaggio lirico a immagini e frammenti sconvolgenti, narrando l’eredità della guerra. L’autore lo presenterà oggi al Salone del Libro di Torino, alle 15.30, alla Sala Blu e poi in un breve tour italiano.

Il suo libro assomiglia a una sorta album di famiglia, un viaggio attraverso i codici non scritti di un’identità maschile che prende forma con la guerra…
La prima cosa che in genere mi chiedono è perché ho scelto di arruolarmi, come ho deciso di diventare un soldato. Credo che il libro tenti di dare una risposta a tutto questo. Nel maturare le mie scelte, penso di aver seguito la lunga tradizione militare della mia famiglia. O meglio, quella vena che si è espressa attraverso un esercizio delle mascolinità in guerra. Mi sono concentrato solo sulla linea maschile, al punto che oggi sto invece recuperando il tempo perduto e sto scrivendo una storia delle donne di casa mia, e ho scelto di raccontare gli uomini che hanno segnato la mia vita e la mia identità. Però, come in un quadro impressionista fatto di piccoli frammenti, se ci si allontana un po’ si può cogliere nel libro una visione più grande. Si sviluppa a partire dalle tracce visibili della mia identità, ma cerca di consegnare ai lettori un’idea di uomo più articolata degli stereotipi che accompgnano l’identità maschile. Non a caso ho sentito che era venuto il momento di scriverlo quando mi sono reso conto che interrogandomi sulle mie scelte, una parte delle risposte non mi erano così chiare.

Quello che racconta è anche il profilo di un paese attraversato ancora oggi dai fantasmi di Gettysburg e dall’onnipresente ricordo del Vietnam, che sente di essere stato forgiato in una guerra che non ha mai smesso di combattere. Una biografia collettiva?
Senza dubbio. Si tratta di un tratto in qualche modo culturale. Attiene cioè alla psicologia delle masse. In molti paesi, la guerra è infatti un qualcosa di automatico, è come il battito del cuore e il respiro. Noi non pensiamo a come dobbiamo respirare, lo facciamo e basta. Perciò, per molti americani tutto ciò è fondamento della propria identità, anche se spesso non ne sono consapevoli.
Detto questo, si deve considerare come negli Stati Uniti non ci sia l’obbligo della leva, i soldati sono tutti volontari, e la parte della popolazione coinvolta direttamente con la vita militare rappresenta una minoranza. Con il passare del tempo credo che le cose stiano cambiando, sia da noi che in Europa, anche se da un altro punto di vista. Mi riferisco al fatto che oggi senza nemmeno accorgercene, l’eco dei campi di battaglia si sta trasformando in qualcosa di famigliare. E questo grazie alla presenza nelle nostre società dei profughi, penso ad esempio ai siriani, che scappano da un conflitto che si combatte in questo stesso momento. Oggi nessuno può più dire che non sa cosa sia un bombardamento e quali conseguenze abbia.

Nel 2003, non lontano da Baghdad, lei portava libri di poesia araba nello zaino e scriveva versi tra un combattimento e l’altro. Eppure scelse di non leggere le sue poesie in una serata a «microfono aperto» tra i suoi commilitoni. Perché?
All’epoca mi dissi che io lì in Iraq ero il primo sergente Brian Turner, questo c’era scritto sulla mia divisa. Ero in qualche modo un rappresentante di quella parte di popolazione americana che si trovava in quel luogo per combattere. Ero questo e soltanto questo. Ma dentro ciascuno di noi c’era molto di più di ciò che la guerra richiedeva. Anche un’altra cosa mi preoccupava. L’idea che agli occhi degli altri il fatto che fossi un poeta rappresentasse una possibile debolezza. E che mentre eravamo impegnati in combattimento o entravamo nelle case sfondando le porte a calci, tutto ciò potesse condizionare la mia capacità di difenderli o di tirarli fuori dai guai. Se allora fossi stato una persona più forte sarei riuscito a leggere i miei versi in mezzo a loro e a spiegargli che questo non mi impediva di proteggerli in ogni circostanza.

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Nel libro, un iracheno catturato la osserva da un recinto metallico ma vede solo una divisa anonima. «Anche lui non mi vedeva come un uomo». La sua opera serve a restituire umanità e dignità a chi ne è privato?
La poesia serva anche a questo. Come diceva il poeta Robert Frost, se non ci sono lacrime negli scrittori non ci saranno lacrime in chi legge. Ci deve essere per forza un modo di rappresentare noi stessi e ciò che capiamo degli altri in una maniera che sia più profonda di quello che le immagini suggeriscono.

Al fronte i soldati portano con sé un pezzo d’America ma, contemporaneamente, sembrano proiettare anche un altro sguardo sul loro paese, qualcosa che muta la loro percezione delle cose…
C’è un momento preciso nel libro in cui un gruppo di soldati entra nella casa di una famiglia irachena e mostra di aver portato con sé una serie di memorie individuali molto forti. Ma si tratta di una fase di passaggio, nell’invasione di quello spazio così intimo che desta in loro ricordi cari, finiscono per convivere due mondi. Anche se non sono così sicuro che questo si traduca nel vedere fino in fondo con altri occhi il proprio paese, quanto piuttosto nel fatto che se lo portano dentro ovunque. Qualche volta questo è un atto consapevole, quasi una violazione, altre volte è un riflesso automatico.
Rick Moody ha descritto qualcosa di molto simile, a cui io ho attinto chiedendogli il permesso. Lui ha scritto che «i ragazzi entrano nella casa», mentre nel mio libro parlo di «ragazzi che sono diventati uomini». Perché il fatto di essere continuamente tirati in ballo, di essere cresciuti nella maniera che ho descritto partendo dalla mia esperienza famigliare, li porterà a commettere ogni volta dei gesti sempre più inconsapevoli e forti. La poesia racconta questo passaggio: loro che crescono e entrano in luoghi e spazi che spesso non erano pronti ad accoglierli.