Matteo Renzi aveva scommesso tutto su se stesso, invocando un plebiscito. Non era più un referendum sulla riforma costituzionale, ma sul suo governo. C’era dentro tutto il peso dei mille giorni di esecutivo, la crisi economica, i vari effetti Brexit e Trump inoculati in tutta Europa. Una serie di errori comunicativi e strategici (un caro saluto a Jim Messina, già consulente di Obama, che procede spedito verso la guida del Cnel), compreso quello di sottovalutare la presa dell’opposizione. Intendiamoci, è stato lo stesso Renzi a voler personalizzare il voto.
Fin da subito ha legato la consultazione referendaria al proprio destino personale e infatti non poteva che dimettersi, come ha fatto – con la voce rotta dall’emozione, gli occhi lucidi e, va detto, una coerenza raramente vista da queste parti – a mezzanotte e venticinque minuti di lunedì 5 dicembre. «Io ho perso, nella politica italiana non perde mai nessuno. Non vincono, ma non perde mai nessuno. Ma io sono diverso, ho perso... Sono stati mille giorni che sono volati, ora per me è tempo di mettersi in cammino». Questo non significa che l’avventura di Renzi sia finita.
Nel 2012 fece un ottimo concession speech nelle primarie perse contro Pier Luigi Bersani (quello che oggi gli rimprovera di non aver visto «la mucca nel corridoio», omettendo di aggiungere che lui di mucche ne ignorò due nel 2013, una si chiamava Berlusconi, l’altra Grillo: quanti voti avrebbero oggi i M5S se alla guida del partito fosse rimasto Bersani?). Be’, dopo pochi mesi Renzi era già rientrato in corsa per diventare segretario. E nel 2014 prese il posto di Enrico Letta. Oggi l’ex sindaco di Firenze esce dal Palazzo, ma potrebbe restare segretario dei Democratici. Fuori avrebbe mani libere, senza quella gravitas istituzionale inevitabile quando sei presidente del Consiglio, e avrebbe anche l’occasione per liberarsi di tanti yes men che lo circondano.
Uno dei limiti del renzismo infatti è la sua classe dirigente: il referendum lo ha perso lui («Mi assumo tutte le responsabilità della sconfitta, io ho perso, non voi. Volevo tagliare le poltrone, la poltrona che salta è la mia») proprio perché poco c’è all’infuori di lui, e la solitudine può essere un’arma a doppio taglio. Aveva promesso che sarebbero andati avanti quelli bravi, non quelli fedeli, ma troppo spesso ha poi ceduto alla tentazione di riempire i cda delle partecipate di Stato di persone a lui vicine per averlo sostenuto fin dalle prime campagne elettorali fiorentine. Per capire che cosa succederà adesso, bisogna tenere conto di alcune questioni.
Senza Pd, intanto, non si regge nessun governo, e Renzi potrebbe comunque rimanere il capo del principale partito di centrosinistra anche se dovesse sorgere un nuovo esecutivo provvisorio fino a nuove elezioni politiche. A meno che non decida di dimettersi pure dalla segreteria. Nel frattempo, molto probabilmente a breve, ci sarà un congresso del Pd e Renzi potrebbe candidarsi di nuovo, vincerlo ed essere di nuovo segretario e candidato premier. Dunque aspetterei a darlo per spacciato come si è letto in giro domenica sera dopo la sconfitta, a partire da Beppe Grillo («Addio Renzi»). Anche perché il NO vince senza avere un leader.
Non ce n’era bisogno, perché l’unico collante – e tanto bastava, in un referendum – era essere anti-Renzi. Brunetta e D’Alema. Speranza e quelli di CasaPound. L’Anpi e Forza Nuova. Salvini e quella gialla dei Teletubbies. La definizione di Renzi, «accozzaglia», sarà stata infelice, specie per un presidente del Consiglio che si rivolge ai membri dell’opposizione, ma era vera. Era un insieme eterogeneo di persone. Ma chi è il capo dell’opposizione, oggi? Non c’è. I 5 Stelle, veri vincitori del referendum, non staranno mai insieme alla Lega (o a Forza Italia), e dovranno dividersi tutti la torta di quel 60 per cento uscito domenica 4 dicembre.
Si rafforzano, certo, le singole leadership, compresa quella di Matteo Salvini, che provava già domenica a intestarsi la vittoria, parlando per primo a risultati ancora incerti. Ma il protagonista dell’opposizione italiana non sembra essere il centrodestra (che peraltro era tutto per il maggioritario e la riforma la votò pure, prima di svegliarsi e decidere che Renzi era il nemico): le prossime Politiche saranno uno scontro fra il centrosinistra e i 5 Stelle. Renzi, per tutta la campagna elettorale del referendum, ha giocato la carta di un populismo civico, di governo. Aveva annunciato il taglio delle poltrone, dei costi della politica, «diamo un colpo alla casta», scendendo sul terreno di scontro del partito di Beppe Grillo, utilizzando tematiche e toni cari ai 5 Stelle.
Una partita rischiosa, che potrebbe ripetersi alle prossime elezioni politiche, visto che quattrini e scontrini saranno protagonisti dei prossimi mesi. Andare al voto presto sembra una scelta opportuna. L’altissima affluenza (68,48 per cento), da voto per la scelta di un nuovo governo più che da referendum, significa che le persone hanno urgente bisogno di tornare alle urne. Prima però bisogna tenere conto di alcune questioni. Entro il 31 dicembre va approvata la Legge di bilancio, pena l’entrata in vigore dell’esercizio provvisorio dello Stato (l’ultima volta risale al 1987, quando a presiedere il governo c’era il giovane Giovanni Goria, che fu bersagliato dai franchi tiratori, poi non è più accaduto).
Altro punto fermo: la legge elettorale, l’Italicum, deve essere cambiata, se è vero che la Consulta la boccerà fra gennaio e febbraio. Ma, cosa più importante: c’è da fare una legge elettorale per il Senato, visto che l’Italicum era stato costruito apposta per andare in accoppiata con la riforma costituzionale appena bocciata dagli italiani.