La pazienza è finita. La già traballante e originale formula delle «dimissioni respinte con riserva», con cui la sindaca Virginia Raggi aveva congedato l’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini nel pomeriggio, tenendolo appeso a un filo, non regge l’urto della pubblicazione dell’audio del colloquio avuto dallo stesso assessore con La Stampa. L’addio a Berdini non può essere rimandato.

La «riserva» sulle dimissioni, così, dura solo qualche ora.

La più breve, forse, della storia politica italiana. È l’epilogo di una giornata iniziata con le reazioni di Berdini ad alcune emittenti radiofoniche, dopo aver letto il colloquio, pubblicato ieri da questo giornale, che lo vede protagonista di alcune frasi poco lusinghiere nei confronti della Raggi e dell’amministrazione capitolina.

Poco dopo, però, arriva il momento delle spiegazioni da dare alla diretta interessata, in Campidoglio. Berdini viene chiamato per una riunione a porte chiuse che durerà alcune ore. Lo accolgono il vicesindaco Luca Bergamo e la Raggi. Nelle ore precedenti, mentre Berdini rilasciava le sue interviste, la sindaca ha avuto modo di sfogarsi. La riunione di emergenza convocata a Palazzo Senatorio con alcuni consiglieri di maggioranza e il resto degli assessori si è tramutata ben presto in un processo in contumacia. I più infuriati, per l’ennesimo inciampo, sono i consiglieri. All’assessore si imputa una distanza mai colmata con la linea politica del Movimento e con le pratiche, interne ai Cinque stelle, di condivisione delle scelte. Ora però, terminata la riunione, la Raggi ha di fronte l’uomo che l’ha definita «impreparata strutturalmente» e invece di irritarsi, si mostra gelida. Lui, racconterà più tardi la stessa Raggi ai cronisti, «si è presentato con la cenere in capo e i ceci sotto le ginocchia».

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Alla prima riunione assiste anche il vicesindaco Bergamo, per avere il quadro della situazione. Ben presto, però, i due rimangono da soli. E Berdini è mortificato: «Ti chiedo scusa, sono stato un co...ne», ha ripetuto - riferiscono dal Campidoglio - più volte alla sindaca. Poi, messo alle strette, avrebbe ammesso tutto ciò che aveva smentito pubblicamente in mattinata. «Sai come sono i giornalisti. Mi ha preso così e io mi sono prestato alle sue domande per dare soddisfazione all’interlocutore». Lei, dopo essersi consultata con Beppe Grillo, ha la soluzione già pronta, senza trattative. «Non voglio che dai le dimissioni perché ci sono troppe cose importanti per la città – avrebbe spiegato Raggi a Berdini. - E poi sembrerebbe una vendetta». La «riserva» sulle dimissioni, come spiegano fonti interne alla giunta, si sarebbe tradotta in un addio trascinato nel tempo e comunque ineluttabile. I rapporti ormai deteriorati con i consiglieri capitolini e con gli altri assessorati non hanno aiutato e, anzi, svelano la formula usata per tenerlo in piedi: «Tutti in giunta dicono che non collabori. D’ora in poi, voglio essere informata anche sui piani di zona e sui lavori pubblici, non solo sullo stadio della Roma», avrebbe imposto Raggi a Berdini. Questo è il colpo più duro, prima del Ko definitivo, per l’assessore che sulla sua autonomia aveva costruito una roccaforte, gestendo liberamente numerosi dossier delicati.

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Ma il patto, che segue la resa di Berdini, è sancito. Quando i due escono, a distanza di qualche minuto l’uno dall’altra, i volti sono segnati dalla stanchezza. E per un attimo, nella capitale d’Italia già commissariata politicamente dai vertici del Movimento, si è assistito ad un sotto-commissariamento dell’assessorato di Berdini. Un’operazione matrioska che, alla fine della tarantella, portava allora e porta anche adesso sempre a Genova. Prima nella decisione misericordiosa di salvarlo, poi nella volontà di staccare la spina. La ricerca del prossimo assessore, a Milano, è già iniziata.

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