Milano, 3 gennaio 2017 - 22:03

Turchia, «Il killer è kirghizo», anzi no: l’inchiesta sulla strage nel caos
Il ministro Esteri: ora sappiamo chi è

L’unica certezza è che l’attentatore sia un miliziano addestrato, probabilmente arrivato dalla Siria. Rilasciato l’uomo che assomigliava alla foto diffusa il primo giorno: non era in Turchia la sera della strage

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«Felice colui che può dirsi turco». Duecento albergatori d’Istanbul arrivano in processione al sacrario di fiori del Reina Club e hanno da depositare la celebre frase d’Ataturk, stampata su un foglio A4. C’è poco da essere felici: i loro hotel, svuotati dalla paura, sono i danni collaterali della strage di Capodanno. Ma meno ancora gioiscono i poliziotti che li scortano in mimetica e mefisto: ripreso da decine di telecamere eppure imprendibile, con un presunto volto ma senza un nome certo, il killer in fuga da tre giorni è ormai un caso. Ora il ministro degli Esteri Mavlut Cavusoglu dichiara in un’intervista all’agenzia di stampa filogovernativa Anadolu trasmessa in tv che l’attentatore «è stato identificato», senza per fornire il nome.

Per i vertici della sicurezza rinnovati da Erdogan, qua e là commissariati dopo il golpe di luglio, le indagini si stanno rivelando un imbarazzo: un terrorista vestito da Babbo Natale che poi non lo era; una prima foto segnaletica che poi non c’entrava; un tentativo d’incolpare i curdi che poi s’è rivelato goffissimo; una soffiata su qualche poliziotto corrotto che poi non si sa; una caccia al cinese che poi non era cinese o forse sì; un giro di vite sugli uiguri che poi chissà… «E’ un’inchiesta difficile», s’è giustificato in Parlamento il ministro dell’Interno, Suleyman Soylu. Altroché. Ieri s’è anche riusciti ad arrestare e rilasciare, dandone al mondo il nome, un commerciante kirghizo che è risultato estraneo a tutto. Nella notte, c’è stato l’ennesimo summit degli investigatori. Con qualche commentatore che s’è chiesto se tutti questi scambi di persona, perfino le bufale, non siano una strategia investigativa: per far credere all’Isis che la cattura sia ancora lontana.

I video

Ne girano fin troppi. Quelli della strage, col terrorista che ha avuto il tempo di cambiarsi in cucina e appare vestito in modi diversi. Il videoselfie di 44 secondi d’un silenzioso uomo in giubbotto nero, che gira su se stesso in piazza Taksim (prima o dopo l’attacco?). La ripresa dello stesso uomo, a Konya il 29 dicembre, mentre paga a un distributore e parla a qualcuno oltre il vetro della cassa. Nessuno sa come le immagini siano arrivate ai giornali vicini al governo. Per non dire della foto del primo giorno, nitidissima, che nessuno ha spiegato dove e come fosse stata presa: l’uomo ritratto in primo piano, col pizzetto, per sua fortuna aveva l’alibi.

Le etnie

L’unica certezza, dicono, è che si tratti d’un foreign fighter. Probabilmente arrivato dalla Siria, viste la calma nel ricaricare sei volte l’Ak-47 e l’abilità d’usare perfino granate stordenti, per coprirsi la fuga. Nell’ordine, vengono indiziati i curdi (perché lo è il proprietario del Reina), gli arabi in genere, i siriani, i ceceni, cinesi turcofoni… L’ultima pista è durata sei ore: il tempo di far pubblicare sul sito della tv Trt il passaporto di Lakhe Mashrapov, 28 anni, kirghizo di Bishek che sembra somigliare all’uomo del videoselfie, e poi di cancellarlo senza troppe scuse. Lakhe viene bloccato da agenti turchi all’aeroporto d’Istanbul, lasciato andare in un’ora, quindi riarrestato in Kirghizistan e ancora interrogato. Le impronte corrispondono? No. Era sul Bosforo la notte dell’attacco? No. E allora? «Il suo passaporto - rivela una fonte kirghiza – era stato messo in rete dai media, come fosse quello del colpevole».

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Gli arresti

In manette sono finiti sedici «complici del killer»: ignote le imputazioni. Si setacciano i quartieri di Zeytinburnu, Fatih, Basaksehir, abitati dai centrasiatici. Tra gli arrestati c’è la madre di due bambini, kirghiza o uzbeka, che a novembre è arrivata dalla Siria e ha affittato per tre mesi un monolocale a Konya, assieme al marito in cerca di lavoro: secondo i vicini di casa, è lui l’uomo che compare nei video. Gli investigatori sospettano sia collegato al kirghizo che in giugno attaccò l’aeroporto d’Istanbul e appartenga a una cellula dormiente legata ad Ahmed Chataev, «il monco», reduce ceceno senza un braccio che s’è riciclato come luogotenente di Al Baghdadi. Ma è solo un’ipotesi. «Mai saputo d’avere in casa uno dell’Isis» si difende la donna. Per ora, lei resta dentro. Per ore, s’è fatto credere che il kirghizo di Konya e il commerciante di Bishek fossero la stessa persona.

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Responsabilità

Sono quelle che mai emergeranno. Con le domande che circolano. Sulla lentezza della polizia la sera della strage: una caserma è a poca distanza dal Reina. Sulle probabili complicità: il terrorista è scappato da una delle tre uscite riservate al personale, che un estraneo arrivato da lontano non poteva conoscere. Sulle fughe di notizie che sembrano pilotate. «Altro che Obama – si vanta il ministro Soylu -, siamo gli unici a combattere davvero il jihad. Nel 2016 abbiamo sventato 339 attentati e arrestato 3.506 uomini dell’Isis», anche se nell’ultimo anno e mezzo sono bastati venti attacchi, a fare 400 morti. «La strage in discoteca dimostra che la Turchia è entrata in una nuova fase di scontro con l’Isis», dice l’esperto di terrorismo Michael Horowitz: «Prima ci si limitava allo scenario siriano ed era una guerra non dichiarata. Ora, la dichiarazione di guerra è stata fatta». Resta da capire se la Turchia sarà capace di combatterla.

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