Milano, 27 novembre 2016 - 23:17

«Saremo al sicuro dai terremoti
Ma servono 50 anni di lavoro»

Renzo Piano è impegnato nel progetto Casa Italia: «Impariamo la lezione di Veronesi sui tumori. Bisogna saper fare diagnosi ed essere onesti». La verità deve entrare nella testa della gente, dice: «Come in Giappone, lì se chiedi a un bambino cosa fare lo sa»

Renzo Piano Renzo Piano
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L’architetto e senatore a vita sa bene che sarebbe più facile tirar su un grattacielo di 900 metri. Buoni tutti, a farlo. Molto più complicato metter mano a edifici in gran parte poveri e umili ma che messi insieme sono la grande bellezza d’Italia. E più ancora sconfiggere la «cultura della sfiga». Quella che spinge a dire: «che ci possiamo fare? La natura...». «Non ne possiamo più della cultura della “sfiga”. Basta. È indegna di noi. Della nostra intelligenza. Della nostra storia. La natura non è buona o cattiva: se ne infischia di noi. Inutile chiamarla in causa. Cosa saremmo se nei millenni non avessimo imparato a coprirci, scaldarci, arginare i fiumi? I terremoti ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Ed è stupido fingere che non sia così. Bisogna imparare da Umberto Veronesi».

Che c’entra Veronesi?
«Ebbe il coraggio di essere chiaro. Disse a tutte le donne: avete dei bellissimi seni ma quei seni sono anche una vostra fragilità. Le donne lo hanno ascoltato. E un po’ alla volta la guerra contro il tumore al seno ha dato risultati eccezionali. Occorre essere onesti anche sui terremoti. Non con i terremotati: purtroppo sono stati già segnati. Ma con i “terremotabili”: milioni di persone devono essere consapevoli di vivere in un Paese meraviglioso ma fragile. E non posso accettare che si tocchino...».

La cultura del cornetto di corallo, della zampa di coniglio, del ferro da cavallo…
«È una disgrazia, quella cultura. C’è bisogno di verità e questa verità deve entrare nella testa della gente. Che deve accettare la realtà come in Giappone. Lì se tu chiedi a un bambino cosa deve fare lui lo sa. Perché sono decenni che glielo spiegano a scuola. Decenni»

Mica facile.
«È ovvio che questo progetto per un terzo è scientifico, per un terzo è sociale e per un terzo culturale. Ci sono persone che non fanno gli esami per paura di sapere che sono malate. Non vanno terrorizzate ma spinte a conoscere la propria casa, santo cielo, sì».

Si potrebbero incentivare le perizie permettendo di scaricare il loro costo dalle tasse…
«Certo, ma molti preferirebbero comunque non sapere. Per la paura di scoprire, attraverso la diagnostica, che la loro abitazione è a rischio. Per non dire dei timori per un tracollo del suo valore immobiliare».

I dati potrebbero essere secretati: almeno avremmo un quadro meno approssimativo della situazione.
«Ripeto: è necessaria una rivoluzione culturale. Questa operazione diagnostica deve essere accompagnata da un progetto con il quale il governo in qualche maniera ti aiuta, come ti aiuta per gli aspetti energetici. Ci sarà gente che rifiuterà lo stesso di affrontare il tema: “ormai siamo anziani...”. I figli, magari fra 25 anni, no. Il cantiere fisico deve intrecciarsi col cantiere culturale».

Ma questi su cui lavorate sono «cantieri fisici» davvero?
«Certo. Senza cantieri reali, veri, concreti, le nostre sarebbero chiacchiere. Stiamo individuando comuni-tipo e dentro questi comuni una decina di edifici-tipo (la casa di cemento, quella di muratura mista, quella sciagurata coi ciottoli di fiume fatti apposta per rotolare e magari appesantita da un enorme tetto di cemento...) per fare dei prototipi che possano poi servire da modello a tutti. Perché cominciamo dalle case? La casa è il luogo delle certezze. Del rientro serale. Della famiglia. Della intimità. Non può essere un luogo insicuro. Partiremo, ovvio, dalla diagnostica».

Ancora la medicina...
«Prima di operare ogni chirurgo, se non è cretino, parte da lì. Più è fatta bene meno la chirurgia sarà invasiva. Pensi all’ortopedia: rimette in piedi ormai una persona in due giorni evitando tutti i problemi vascolari. Ecco perché uso questa metafora: c’è una prossimità tra l’organismo e un edificio, che è una creatura vivente. È fatto sì di pietra o cemento però c’è una prossimità. C’è dentro gente. E durante i lavori può restare dentro».

In che senso?
«Quando metti una catena nei muri, oggi, non fai più come una volta che dovevi spaccare tutto. Ci sono strumenti laser che permettono soluzioni molto più efficaci lasciando gli abitanti dentro casa. La vicina che sta sotto non se ne accorge neanche. Come quando fai un’anestesia locale... Certo, non dappertutto saranno possibili interventi di difesa “leggeri”. Ma su dieci milioni di abitazioni a rischio almeno in nove...».

Stiamo parlando di case «messe in sicurezza»?
«Non userei quelle parole: danno l’idea che un edificio sia poi totalmente sicuro. No: non esiste la sicurezza totale contro i terremoti come non esiste contro il cancro. Se affronti il problema, se ti curi, se fai quanto la scienza ti offre, però, sei meno esposto. Va da sé che parallelamente dovrà passare l’idea che chi abita una casa non può occuparsi solo delle mattonelle a fiori ma deve porsi anche il problema della sicurezza. Poi, chiaro, è centrale la scuola».

Magari con qualche ora di lezione dedicata alla cultura dell’edilizia e del paesaggio?
«Magari... Serviranno decenni. È bene che gli scolari ci mettano la testa subito. Anche perché non è solo una questione di sicurezza. Nel momento in cui ci metti mano, questi edifici devono pure diventare più belli. Più funzionali. Più ecologici. Più luminosi. Questo è il Paese che ha inventato la bellezza! Non possiamo pensare a interventi utilissimi ma che producano Frankenstein edilizi. Al patrimonio costruito indecentemente nel Dopoguerra dovremmo dare un po’ di decoro...».

Lei propone anche una edilizia scolastica diversa...
«La scuola è una specie di casa. È dove stanno i nostri figli. I nostri bambini. Dove devono sentirsi sicuri. In caso di sisma il luogo dove le persone si rifugiano è la scuola. La scuola non deve cadere. Deve dunque esser fatta in un certo modo. Di legno, ad esempio. Materiale fantastico. Ecologico. L’auditorium dell’Aquila è stato fatto con 2200 metri cubi di legno: in Val di Fiemme quei 2200 metri cubi si riformano in sei ore. Parlo di scuole piccole, ovvio. Su misura dei borghi appenninici che sono più esposti. Borghi che possono stare anche senza una farmacia, non senza una scuola».

Una curiosità: uno sforzo di questo genere avrebbe bisogno di qualcuno che si occupi «solo» di questo? Un ministro, un viceministro, un commissario specifico...
«Può essere. Non so se un ministro, un vice o cosa... Ma come c’è un Dipartimento per la Protezione civile ci vuole chi si occupi della difesa del patrimonio edilizio su tempi lunghi. In ogni caso, oggi l’importante è partire. E poi via: passo lento, respirazione profonda e avanti».

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