Milano, 28 novembre 2016 - 00:17

«Noi, pendolari dannati»
Il portavoce dei dimenticati

Vita quotidiana di Maurizio, 65 anni, sul treno Ostia-Roma. «È la peggiore d’Italia». Poi la metro B e l’autobus 435 attraverso la Capitale da sud a nord: «Ci metto quasi 4 ore»

shadow

Il portavoce dei dimenticati viene dal passato. «Sì, ho un’ossatura che mi ha consentito di andare oltre il mugugno», sogghigna. Alla fermata di Tor di Valle, sui binari del trenino Ostia-Roma, Maurizio Messina spalanca le braccia: «Guarda qui, bisogna essere giovani e forti». Bisogna, eccome: per sopravvivere. L’appuntamento è alle otto del mattino, il vagone è già strapieno come al solito («spesso è molto peggio»), niente aria condizionata, «d’inverno Siberia e d’estate Africa»; la partenza è un terno al lotto, la stazione è un cantiere che molti usano come discarica, tanti gradini e niente scale mobili, tornelli fasulli, entra chi vuole senza biglietto ma chi non ha gambe buone non entra affatto, una signora con bastone arranca davanti a noi, la spingono. «Lì nel gabbiotto c’era uno dell’Atac, è un pezzo che non c’è più, non c’è controllo».

Se in Italia esiste un monumento alla dimenticanza, è qui. Comune, Regione, azienda capitolina, Stato, tutti hanno dimenticato una tratta di tredici fermate e 28 chilometri su cui si muovono ogni giorno centomila lavoratori e studenti, e che nel 2015 ha vinto il Premio Caronte di Legambiente («la peggiore d’Italia, Medioevo»). Qui l’ultima conducente ferita è cronaca di un mese fa, un pendolare inferocito da mezz’ora di attesa le ha spaccato il finestrino della cabina di guida con un sasso. Maurizio fa l’informatico ad Almaviva, ha 65 anni («ma devo tirare fino alla fine, ho mutuo e figlie, e siamo in solidarietà»). Segaligno, brizzolato, stanco ma non piegato. Ironico, con tendenza al sarcasmo. Si fa quasi quattro ore al giorno sui mezzi, due all’andata, da Torrino alla Bufalotta, due al ritorno: il treno Ostia-Roma, la metro B, l’autobus 435, dalla periferia sud a quella nord e viceversa. «Ma sono fortunato, timbro senza obbligo d’orario. E quelli che vengono da Ostia si beccano sei o sette fermate in più».

I treni si guastano di botto, li lasciano a piedi sui binari, le corse vengono cancellate a tradimento, girano carrozze vecchie trent’anni, le nuove ne hanno una decina, le ha volute Veltroni, ma sono rare e già rovinate dai teppisti: ci hanno persino portato un maiale, a bordo, la foto ha fatto il giro dei social network. Un giorno del 2012, con un’altra quarantina di dannati come lui, Maurizio ha deciso che bastava. «Ognuno di noi scriveva per protestare lettere su lettere, mail su mail, non ci si filava mai nessuno, nemmeno ci rispondevano. Allora abbiamo pensato che l’unione fa la forza».

Così è nato il Comitato Pendolari Roma Ostia, un blog da un migliaio di contatti, qualcuno con pagine Twitter dove ci si scambiano informazioni e imprecazioni per i ritardi che l’Atac non comunica mai in tempo, dicono: «Potrebbero, hanno la centrale ad Acilia dove vedono tutto prima, basterebbe prendere un microfono, macché». Primo atto del Comitato, diecimila questionari sulla ferrovia. In duemila l’hanno restituito, dicendo peste e corna: un successo politico. Fare il portavoce della creatura è venuto naturale. A diciott’anni, nella sua Livorno, Maurizio sognava di raddrizzare il legno storto dell’umanità: Avanguardia operaia, Democrazia proletaria, la carta d’identità d’una generazione in corteo permanente per l’assalto al cielo. Dopo qualche decennio a Roma considera un successo avere ottenuto, martellando l’Atac, il 435 a viale Jonio, che praticamente è il bus di loro tremila, i lavoratori di Almaviva, ha persino una fermata dentro la sede di via Casal Boccone: «Ti fa sorridere? Beh, sono piccole cose che devi inserire in un contesto, il contesto è grande».

La rivoluzione è quasi andare in tv alla trasmissione di Iacona. «Sono molto mediatico», avverte, amaro ma non domo. Sottobraccio, una cartelletta nera della Fiom con una piccola spilletta gialla per il No, che non esibisce. Ha votato Fassina. Il suo 435 passa quando capita, niente paline elettroniche, «è il gusto della sorpresa». Sospira. «Non potrei essere un Cinque Stelle, sai? Ma ci siamo molto amalgamati con loro, nel Comitato. Parliamo la stessa lingua. Ci sono stati molto vicini, prima. Ogni iniziativa nostra, facevano un’interrogazione. Adesso? Beh, un po’ sono cambiati, sì, hanno rallentato, governano. La Raggi non so se ce la fa, dovrebbe fare scelte oculate, non so se è in grado».

La prima scelta che gli sta a cuore è contro lo stadio della Roma a Tor di Valle, «dovrebbero raddoppiare la linea,se no qua si paralizza tutto. Ma la linea non la raddoppieranno. E te li immagini i tifosi su ‘sto treno?». A febbraio c’è la conferenza di servizi, si decide, lui sta col blog carico e spianato, non si fida troppo neanche degli amici grillini. Dal cavalcavia, conta le macchine in entrata a Roma sulla via del Mare, da semaforo a semaforo, pare un matto, «ma così documentiamo i flussi, li elaboro io poi, qua non lo fa nessuno, buttano giù progetti per arricchire i costruttori». Ha un elenco sterminato di politici e manager che hanno promesso mari e monti. «Ci dicono: avete ragione, stiamo provvedendo. Prima delle elezioni ci dicono che arrivano un sacco di milioni per i treni. Ma non succede mai nulla». Marco Rettighieri, il direttore generale silurato dalla Raggi, diceva che senza interventi tutto si sarebbe bloccato in un paio d’anni. Nel 2007 passava una corsa ogni sette minuti, ora una ogni quindici, venti. «Il nostro treno è lo specchio della caduta di Roma», dice Maurizio varcando il cancello di Almaviva: «Dovrebbero studiarci a scuola».
(1 - continua)

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT