Milano, 28 novembre 2016 - 22:21

Cannonate e lacrime
In fila con i cubani
per l’ultimo addio a Fidel

All’Avana, almeno ieri, sembravano tutti fidelisti. Centinaia di migliaia di cubani lunedì hanno risposto ancora una volta obbedienti all’ordine di regime: firmare non un libro nero del lutto ma il giuramento di fedeltà agli ideali del leader scomparso

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È un serpente lunghissimo che parte dall’Avenida Paseo e si muove lento e sinuoso sotto il sole fino a Plaza de la Revolución. Ci sono i ragazzi dell’università dove studiò il giovane e irrequieto Fidel, uguali a tutti gli studenti del mondo anche se le loro magliette non hanno marchi famosi. Ci sono i nonni che ricordano i primi gloriosi anni dell’avventura castrista e ogni tanto rallentano il passo degli altri. Ci sono le famiglie con mamme armate di ombrellino e bambini che il «grande vecchio» l’hanno studiato solo sui libri di storia. «Eroico, generoso, buono, modesto, trionfante, paterno…», le voci ripetono in coro la litania che da venerdì notte, quando è stata annunciata la morte del «lider máximo», riempiono la radio e la tv di Stato. Il dissenso tace. All’Avana, almeno ieri, sembravano tutti fidelisti.

«Trump può dire tutto quello che vuole, Fidel ha superato undici presidenti americani. Passerà anche Trump, e noi saremo ancora qui, fieri e socialisti», sbotta Manuel, sollevando in alto la sua bandiera. Come lui, centinaia di migliaia di cubani ieri hanno risposto ancora una volta obbedienti all’ordine di regime: firmare non un libro nero del lutto ma il giuramento di fedeltà agli ideali del leader scomparso. Un testo tratto dal discorso che Castro fece il 1° maggio 2000, all’apice dello scontro con gli americani per il piccolo Elian González: «Rivoluzione è cambiare tutto ciò che deve essere cambiato… è difendere i valori in cui crediamo a costo di qualsiasi sacrificio….Rivoluzione significa unità….».

Pablo ha 90 anni e procede baldanzoso. «Per sempre fedele», assicura. Ha firmato il giuramento nel suo quartiere — sono più di 1.600 i punti predisposti tra scuole, ospedali, biblioteche — «ma poi ho visto le immagini in Tv di chi veniva qui al mausoleo José Marti, come potevo mancare». Man mano che ci si avvicina all’obelisco che domina dall’alto la spianata, le voci si spengono, diventano meno di un brusio, l’altoparlante invita a zittire i telefonini. I cubani obbediscono. Dentro il memoriale, tante rose e foto del giovane «compañero». Molti piangono passandoci accanto. Oggi arriveranno i discorsi politici, l’inchino dei capi delle delegazioni diplomatiche, verso sera ci sarà un atto pubblico sulla piazza dove Fidel arringava la folla e mercoledì mattina la teca con le sue ceneri si metterà in viaggio, 900 chilometri, verso Santiago di Cuba, il viaggio a ritroso della Carovana della Libertà del 1959. Ma oggi la piazza è del popolo.

Qualcuno era già in fila alle quattro del mattino, assicura un poliziotto, ma il serpente ha cominciato a muoversi soltanto quando dal castello del Morro, di fronte all’Avana vecchia, sono partite le prime ventun cannonate a salve. Andranno avanti fino a domenica, giorno del funerale.

Carlos Manuel Lopez è qui con le due sorelle, la figlia e le nipoti. «Per Fidel e per nostra madre, che abbiamo perso quest’anno e che ci ha sempre portati fin da piccoli a tutti gli eventi del Comandante. Lei ha dato l’anima e il corpo alla rivoluzione, si è perfino sposata con i vestiti da miliziana», racconta. La figlia Claudia, 19 anni appena compiuti, è ancor più convinta: «Fidel è un amico, una persona di famiglia, è grazie a lui che a Cuba noi tutti possiamo andare all’università. Non è la figura mitologica che racconta la stampa straniera, era un uomo ma grandissimo». Il circo dei mass media è arrivato in massa sull’Avana, mandando in tilt la burocrazia dell’isola. Il Centro de prensa internacional straripa di reporter accasciati per ore sui gradini in attesa di un pass che non arriva e di qualche notizia sottobanco. Qualcuno fa circolare voci di trame oscure, che nessuno può confermare o smentire. Un americano assicura convinto che «a Miami qualcosa si sta già muovendo». Parole senza riscontri. La professoressa Sofia Reyes alza le spalle: «La mafia degli esuli di Miami non riuscirà a far nulla se noi resteremo uniti, se non faremo cadere la spada della nostra indipendenza», assicura dalla coda di Plaza de la Revolución, citando l’eroe dell’indipendenza cubana José Marti.

Cento metri più in là, gli universitari gridano «Fidel, Fidel, que tiene Fidel que los imperialistas no pueden con el», ma cos’ha il Comandante invincibile? Anche Andy, secondo anno di psicologia, è qui per rendergli omaggio. Ma ora, «andiamo avanti con le riforme, implementiamo il programma economico in corso — chiede, facendosi portavoce di tanti suoi coetanei —. In fondo anche Lenin diceva che si possono includere elementi di capitalismo…».

È quello che chiedono a gran voce i sempre più numerosi «cuentapropistas», i piccoli imprenditori dell’isola, ma anche molti businessmen americani, terrorizzati dalla possibile marcia indietro della futura Casa Bianca.

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