Politica

I vuoti da riempire

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Il governo secondo Matteo è lo specchio fedele di un modello politico-istituzionale: più che il presidente del Consiglio, l'uomo che chiede la fiducia al Parlamento e al Paese è il sindaco d'Italia. Renzi guida un esecutivo snello, giovane e rosa, dove la sola figura che conta, perché comanda e decide, è quella del premier. Più che un "governo Renzi", quella che vediamo giurare al Quirinale e poi muovere i primi passi in Senato è una "giunta Renzi". Ed è esattamente con questo spirito che si rivolge alle Camere, per chiedere un voto che allunghi la vita di una legislatura altrimenti svuotata di senso.

Il discorso d'investitura del presidente-sindaco riflette la dimensione neo-leaderistica e post-ideologica del renzismo. Anche a Palazzo Madama, come è già successo a Palazzo Vecchio e come succederà a Palazzo Chigi, il "messaggio" è lui stesso. In questo "tempo del coraggio" e in questa promessa di "cambiamento radicale" (quasi a prescindere dai contenuti) si condensa e si esaurisce tutto. Leggi e riforme sono appena accennate. Destra e sinistra non sono mai menzionate. Il premier è il programma. E la fiducia che chiede non è tanto alla credibilità del suo progetto politico, quanto alla sua capacità di renderlo, di volta in volta, visibile e praticabile.

Il "manifesto" illustrato dal premier va giudicato su due piani distinti. C'è il piano della "forma", che è distesa ma convincente. Il suo sembra un discorso da campagna elettorale, più che un testo istituzionale. Da sindaco, Renzi parla al cuore degli elettori più che alla testa degli eletti. Si rivolge alla gente comune più che alla "casta", alla quale in replica lancia una sfida aperta, rivendicando una sua cifra "stilistica" irriducibile, se non addirittura incompatibile con i canoni del Palazzo. Ripete cose di buon senso, che ognuno di noi dice o sente dire nella vita di tutti i giorni: dalla necessità di tagliare i lacci della burocrazia all'urgenza di ridare dignità agli insegnanti. Gli interessa il dialogo con le persone normali che soffrono (come "i genitori di Lorenzo" morto in un incidente stradale e "Lucia sfregiata con l'acido") più che quello con i senatori che nicchiano (come quelli di Gal). Il linguaggio è semplice, immediato, fuori dagli schemi e dall'ortodossia. Dunque moderno. Come moderno è l'eloquio di oltre un'ora, a braccio e con la mano in tasca.

Poi c'è il piano della "sostanza", che è estesa ma insufficiente. Dopo il drammatico risveglio dal ventennale incubo berlusconiano, sentire un altro presidente del Consiglio che parla del "gusto di fare sogni più grandi" solleva un filo di inquietudine. Dopo i molti annunci e i molti "titoli" lanciati in questi giorni (dalla direzione Pd del 13 febbraio allo scioglimento della riserva sul Colle del 21 febbraio) da Renzi si aspettavano risposte convincenti su almeno tre questioni politiche (qual è il motivo della sfiducia al governo Letta, qual è la natura del nuovo governo che ha deciso a sorpresa di guidare e qual è il percorso della nuova legge elettorale) e su almeno quattro questioni programmatiche (quali sono le linee guida delle riforme del lavoro, della pubblica amministrazione, del fisco e della giustizia). Bisogna dirlo con chiarezza: nessuno di questi nodi è stato sciolto.

Sulla politica, Renzi rende un tributo pubblico al suo partito, con un'empatia e una convinzione che non aveva mai manifestato prima. Ma non spiega le ragioni profonde che hanno spinto il Pd a sacrificare Letta e il suo segretario a sostituirlo al governo. Per spazzare via gli equivoci su un passaggio oggettivamente critico della legislatura non basta dire "abbiamo deciso di accelerare perché fuori di qui c'è un'Italia curiosa, che si vuole bene ed è stanca di aspettarci" o "perché eravamo al bivio delle elezioni", né ripetere "avrei preferito arrivare a Palazzo Chigi con un passaggio elettorale". Per dissolvere le ombre sull'identità di una maggioranza innaturale che ora diventa addirittura "strutturale" non basta dire "questo è un governo politico, con i segretari di partito dentro, perché pensiamo che la politica non sia una parolaccia".

Il premier avrebbe dovuto fare uno sforzo in più. Lo stesso che ha fatto, e questo gli va riconosciuto, quando ha chiarito che la nuova legge elettorale resta "la priorità", e per giustificare la riforma del bicameralismo si è rivolto ai senatori con un colpo a sorpresa, dicendo "spero di essere l'ultimo presidente del Consiglio che fa questo discorso in quest'aula". Se l'Italicum ha una logica, non può essere un "taxi" occupato solo per destabilizzare il governo Letta e per entrare a Palazzo Chigi attraverso l'ingresso di servizio.

Sull'economia, Renzi rende un tributo pubblico all'Europa, con una solennità e una forza che non aveva mai usato prima. Ma non spiega i dettagli del Jobs Act (se non ribadendo l'introduzione di uno strumento di tutela "universale"), della riforma della pubblica amministrazione (se non rilanciando la giusta battaglia contro il Leviatano ministeriale e a favore dell'"accountability" per i dirigenti inamovibili) e della riforma del fisco (se non annunciando l'invio a domicilio della dichiarazione dei redditi pre-compilata per dipendenti e pensionati). Su questi temi centrali dell'agenda di governo, onestamente, era lecito aspettarsi di più.

Su alcune misure Renzi ricalca le orme lasciate da Letta, e già inserite nell'ultima Legge di Stabilità: lo "sblocco totale, e non parziale, dei debiti della PA verso le imprese", l'"aumento del Fondo di garanzia per le Pmi" (già innalzato a 95 miliardi) e persino l'edilizia scolastica essenziale a "rammendare le nostre periferie" (1,8 miliardi già stanziati). Su altre misure glissa o non lascia tracce visibili. Non una parola sulla tassazione delle rendite finanziarie e sull'incidente in cui è incappato Delrio a proposito della rimodulazione dell'aliquota sui Bot. Non una parola sulle risorse necessarie a coprire la promessa più importante del suo piano, cioè "la riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale". Dieci punti di abbattimento valgono 34 miliardi. Si coprono tutti con la miracolosa spending review? E dove calerà la mannaia di Cottarelli?

Ma i dubbi maggiori riguardano la giustizia. È urgente usare non il cacciavite ma il trapano, dentro un sistema che tra rito amministrativo, civile e penale produce ritardi compresi tra i 7 e i 10 anni. Ma il berlusconismo - fatto di norme ad personam e di spallate all'ordine giudiziario, di macchine del fango e di attacchi ai "magistrati-metastasi-della-democrazia" - non si può liquidare dicendo solo "basta ai derby ideologici". I nudi "fatti", i processi per corruzione prescritti e le condanne definitive per frode fiscale, i lodi Alfano e le leggi Cirielli, non si possono chiudere in silenzio tra le parentesi della Storia, senza dare un nome alla persona (Berlusconi) e alla cosa (la Costituzione). Dunque, che vuol dire per il presidente del Consiglio "riforma della giustizia"? Vuol dire separare le carriere di giudici e pm? Vuol dire rinunciare all'obbligatorietà dell'azione penale? Sarebbe bene saperlo. Tanto più se si ritenta un patto con il diavolo, cioè la riforma elettorale e istituzionale insieme al Cavaliere.

Anche se la velocità è la sua arma, e il cambiamento la sua condanna, Renzi avrà un solo modo per dare al Parlamento e al Paese i chiarimenti che il suo discorso sulla fiducia non ha fornito. Fare in fretta, e al meglio, le tante cose che promette. Ma il premier è il primo a conoscere le grandi difficoltà e gli enormi rischi della sua "missione". Ha numeri appena sufficienti al Senato, e comunque l'aritmetica non fa una politica. Ha due maggioranze parallele, una per il governo (con il Nuovo centrodestra) e una per la riforma elettorale (con Forza Italia). In queste condizioni, durare fino al 2018 può risultare davvero una "smisurata ambizione". Ma Renzi ha una sacrosanta ragione, quando sostiene che ormai c'è "una sola occasione, questa". Se ce la giochiamo, non fallisce solo il "sindaco d'Italia". Fallisce l'Italia.
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