Ci vuole molto di più di un «like» indignato su Facebook per la morte di Cecil, il leone più popolare dello Zimbabwe, più di una firma in una petizione anticaccia o il linciaggio del pessimo dentista del Minnesota, reo di aver adescato il leone fuori dal Parco nazionale Hwange: per proteggere un patrimonio che non è solo dell’Africa, ma che appartiene al mondo, occorre prima di tutto un intervento internazionale per combattere la corruzione, leggi severe sulla caccia illegale e contro la crudeltà verso gli animali e un piano finanziato per convertire il turismo legato alla caccia in eco-safari.
Il re leone dello Zimbabwe è solo uno dei casi, che mai sarebbe venuto alla ribalta se Walter Palmer si fosse attenuto a quello per cui aveva pagato: un trofeo da 55 mila dollari, in un’area adiacente al parco. Ma non è andata così: attrarre subdolamente con un’esca la criniera nera seguita dai ricercatori inglesi per anni ha scatenato la condanna. E ora si rischia di creare danni maggiori.
Premessa: sono una di quelle che ha umanizzato la felina di casa e trasformata in membro della famiglia, ma ho vissuto a lungo in Zimbabwe, ho incontrato decine di cacciatori durante i safari e, pur non condividendo la loro attività, credo vada in parte considerato il loro realismo.
La maggioranza degli abitanti del primo mondo pensa che la caccia non nobiliti l’uomo e che il fucile come estensione di virilità abbia fatto il suo tempo. Ma la realtà dice che ci sono uomini disposti a spendere cifre innominabili per quella adrenalina e per quei trofei. Esiste, non ci piace, ma è meglio farci i conti.
Perché in Paesi come lo Zimbabwe (e gli altri sette dove la caccia al leone è legale), i maestosi felini non sono Simba, il personaggio di Disney, ma minacce alla vita degli abitanti dei villaggi, per cui non c’è da stupirsi se Goodwell Nzou, studente zimbabwano di Biologia molecolare della Wake Forest University (North Carolina), ha scritto sul New York Times che i suoi connazionali non piangono Cecil e gli altri leoni, anche perché li temono, e poiché in media guadagnano 150 dollari al mese sono più preoccupati per il tasso di disoccupazione all’80% in un’economia al collasso. Il rapporto degli africani con gli animali cambia se questi non sono nyama, carne da mangiare, non sono una minaccia alla sicurezza o sono direttamente proporzionali alla prospettiva di una fonte economica. Vale la pena ricordare che il rito di iniziazione dei giovani Maasai includeva l’uccisione di un leone: era una dimostrazione di coraggio e il passaggio all’età adulta; solo con istruzione e sensibilizzazione le nuove generazioni stanno lentamente abbandonando questa pratica.
Siamo tutti d’accordo con Jane Mayer che sul New Yorker cita l’esempio del Rwanda come via futura per scongiurare l’estinzione di alcune specie. La protezione dei gorilla di montagna sta dando frutti: zone ritenute santuari e prezzi alti per poterli ammirare (da 500 a mille dollari per il permesso), con i proventi reinvestiti nell’ambiente. Ma ci vuole la volontà dei governi e anche tempo.
Quando io vivevo in Zimbabwe, agli inizi degli anni ’90, il sistema dei parchi nazionali e dei permessi per le aree di caccia era sotto stretto controllo e parte del denaro ricavato era utilizzato per azioni anti-bracconaggio e tutela dell’ambiente. Sembra un controsenso, ma erano proprio i Professional Hunters, i cacciatori professionisti che per avere la licenza devono superare esami seri, i primi a difendere il patrimonio, che costituiva l’oggetto del loro lavoro. Si professavano ambientalisti, seguendo però una logica di sostenibilità: ogni anno erano stabilite delle quote per ogni area e designato il numero di animali che potevano essere abbattuti (tendenzialmente maschi adulti) anche perché la proliferazione di alcune specie poteva andare a scapito di altre. I cacciatori creavano un’economia, per cui alla popolazione locale interessava di più proteggere la fauna selvatica che non mettere trappole.
Il governo corrotto di Mugabe però ha fatto saltare la maggior parte di questo sistema, cedendo le aree di caccia, al di fuori dei parchi, ad amici compiacenti che hanno il solo intento del profitto, senza nessun rispetto per la savana e i suoi abitanti.
La caccia legale genera in Africa 200 milioni di dollari l’anno, 20 milioni circa in Zimbabwe, ma diversi studi provano che soltanto il 3% ritorna oggi alle comunità locali. A questo si è aggiunta la nuova presenza cinese nel continente che tra le risorse da sfruttare, oltre al sottosuolo, punta a ossa di leone, zanne di avorio e corni di rinoceronte. Nella capitale Harare si dice che nelle aree di caccia succeda spesso di imbattersi in auto con a bordo cinesi che, accompagnati da bracconieri mal pagati, sterminano gli animali con le mitragliette. A loro non servono i permessi, perché rimpatriano i trofei con cargo illegali e quindi poco impatto avrebbe la decisione annunciata dopo l’uccisione di Cecil da alcune compagnie aeree (tra cui British Airways, Delta e Virgin Atlantic) di vietare il trasporto di trofei sui loro voli.
Anche il ricercatore che seguiva il leone-simbolo sostiene che sospendere la caccia legale in questo momento di instabilità amplificherebbe solo il bracconaggio. Ogni settimana si registrano casi ben peggiori della morte di un leone di 13 anni (la vita media è di 15). In questi giorni, nella zona del Kafue in Zambia, sono stati trovati sette elefanti massacrati da cacciatori di frodo che hanno lasciato una femmina agonizzante con il piccolo che stava allattando. Le foto delle loro mutilazioni non sono meno atroci del corpo decapitato di Cecil.
La popolazione di leoni, come quella degli elefanti, sta calando pericolosamente: ne sono rimasti circa 35 mila nel mondo. Lo Zimbabwe è il Paese che ne caccia di più: nei dieci anni fino al 2009 ne sono stati abbattuti legalmente 800 su una popolazione di 1.680. Secondo l’associazione inglese LionAid la corruzione e il fatto che le attuali aree di caccia sarebbero occupate dall’agricoltura potrebbero causare danni peggiori alla popolazione felina della caccia legale, anche perché la pressione demografica (che continuerà ad aumentare) mette già a repentaglio la sopravvivenza di tanti animali selvatici.
Cecil ha aiutato a riportare attenzione sul problema. Che la sua lunga agonia porti a cambiare qualcosa e che diventi l’agonia del bisogno ancestrale dell’uomo di sopraffare: il re è morto, viva il re.