Gli indigeni del Borneo e la foresta hanno vinto: la diga di Baram non si farà

il progetto di costruire una diga nello stato malese di Sarawak, in un’area del Borneo pressochè incontaminata e abitata da diverse comunità indigene, è stato definitivamente abbandonato dalle autorità, che hanno riconosciuto, almeno formalmente, le ragioni degli indigeni

Finalmente una vicenda a lieto fine: il progetto di costruire una diga nello stato malese di Sarawak, in un’area del Borneo pressochè incontaminata e abitata da diverse comunità indigene, è stato definitivamente abbandonato dalle autorità, che hanno riconosciuto, almeno formalmente, le ragioni degli indigeni.

La notizia è stata diffusa da Survival, che ha riportato le parole dell primo ministro del Sarawak, Tan Sri Adenan Satem, il quale ha motivato la sospensione dei lavori proprio con la volontà di rispettare l’opinione delle comunità indigene interessate dal progetto.

La decisione delle autorità del Sarawak arriva dopo due anni di proteste da parte dei popoli indigeni della regione, appartenenti alle comunità Kenyan, Kayan e Penan, che hanno assediato ininterrottamente il cantiere della diga di Baram sin dall’inizio dei lavori, cercando di salvare la propria terra dallo stravolgimento che la realizzazione del complesso avrebbe comportato.

La diga di Baram doveva essere l’ultima, in ordine di tempo, delle tre grandi dighe in via di costruzione nell’area del Sarawak, dopo quelle di Bukun e Murum, già completate: un progetto faraonico, criticato da più parti sia per l’impatto sulla biodiversità e sugli ecosistemi dell’area sia per le proporzioni, dato che, una volta in funzione, i tre complessi avrebbero generato una quantità di energia ben superiore all’effettivo fabbisogno dello Stato.

Secondo studio condotto da Daniel Kammen e Rebekah Shirley dell’Università della California Berkeley, la realizzazione delle tre dighe avrebbe messo a rischio la sopravvivenza del 57% degli uccelli presenti nel Borneo e del 69% dei mammiferi, che da anni convivono con la minaccia della deforestazione, spesso portata avanti per lasciare spazio alle piantagioni di olio di palma.
In particolare, il progetto della diga di Baram avrebbe comportato l’inondazione di circa 388 chilometri quadrati di territorio e avrebbe causato la distruzione delle abitazioni di ben 20 mila indigeni, oltre che di ampie distese di foresta vergine e di piccoli appezzamenti di terreno. La costruzione della diga avrebbe costretto numerosissime famiglie ad abbandonare la loro terra e avrebbe messo a repentaglio il sostentamento delle comunità locali, dedite soprattutto alla caccia, alla pesca, alla raccolta e alla piccola agricoltura.
Le comunità indigene del Sarawak hanno accolto con favore la notizia dello stop ai lavori, ma esigono dalle autorità la garanzia che non si tratti di una semplice sospensione temporanea e chiedono la restituzione della terre acquisite dal Governo e la revoca dei permessi per il taglio del legname nell’area.
Come riportato da Survival, inoltre, molti osservatori guardano con cautela e scetticismo alla repentina decisione delle autorità di rispettare il volere delle comunità indigene, dopo anni di abusi, di prevaricazioni e di insofferenza nei confronti delle loro proteste.

Molto banalmente, l’abbandono dei lavori potrebbe essere stato dettato da motivi economici e da ragioni di opportunità, dato che le dighe già esistenti nel Sarawak forniscono più energia del necessario. A conti fatti, la realizzazione di una nuova diga avrebbe comportato un investimento non solo ingente ma, soprattutto, inutile.

Lisa Vagnozzi
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